“Ma quando cazzo crepi?”

Non sono mai stata così incazzata in vita mia!

E questa volta non è opera della mia arcinemica, snob, bilancia-dipendente: Arianna Lecter.

Non so ancora come mio figlio, sangue del mio sangue, mi abbia potuto umiliare a questo modo.

Tutto è incominciato 3 giorni fa, quando mi sono accorta di non poter gioire da sola dei miei traguardi. Mi serviva qualcuno che mi aiutasse ad esserne fiera. Non sto scherzando.

Stavo leggendo l’ultima bozza della bio scritta per un cliente, quando Lui ha iniziato ad offendermi come un pazzo psicopatico. Ho fatto capolino dal Pc al cellulare con una faccia tipo: “Ma che cazzo??!!”.

Bam, Bam, Bam!!

“Quanto tempo ancora hai intenzione di monopolizzare la mia vita?”, ha detto lui.

“Eh…?!”

Bum!! Bum!! Bum!! Il cuore in gola.

“Figlio, smettila! “

“Quando muori.”

“No! Devo prima tornare a prendermi la mia vita, così posso …”

“Muori prima che fai felice me!”

“Sono desolata, ma non puoi avere la tua felicità, prima che io abbia avuto la mia.”

Tante altre storie

A un certo punto della storia, Marco si dichiarò “Stufo”; di come stava andando la sua storia, della sofferenza che gli stava provocando, delle castrazioni che stava subendo, e degli assurdi ruoli che si era, egli stesso, assegnato.

Era stanco di essere mille uomini e mai se stesso; partecipava ad ogni azione corale della sua tragedia greca, sempre rivestendo ruoli di secondo piano, a ciò che lui era realmente, intendo dire, e non riusciva a procedere nell’intreccio, non determinava la svolta, non riusciva mai a prendere possesso del suo desiderio di “portarsela” a letto.

Era sempre affannato, teso, castrato, quando si trattava di salpare il suo veliero, di spalancare le ali della sua passione e penetrare il suo regno; così, spesso, si perdeva in spire indistricabili per erigere muri, che aprivano il suo sguardo alla paura, alla frustrazione, alla rassegnazione.

Quando la sua amante virtuale cercava di abbattere quel muro di nodi che li teneva distanti, i suoi vari personaggi le costruivano innumerevoli labirinti attorno, per renderle difficile l’uscita.

Ma non era giusto infliggerle tanta ingiusta sofferenza, perché, prima o poi, avrebbe sentenziato la fine di tutto ciò che era davvero, della sua essenza, e dell’amore che provava per la sua sposa.

Doveva pur esserci un modo per permetterle di oltrepassare quel muro, senza farla dissolvere dall’altra parte, nella vita reale.

Così immaginò una romantica soluzione a questo dilemma, che lo stava ammazzando non poco, e decise di scavalcare quel muro egli stesso, con un grande salto, lasciando alle sue spalle tutti gli altri personaggi del racconto e la gente cattiva che lo avrebbe condotto alla gogna…

Andò a salvare la sua bella, dal mostro della disillusione che la stava divorando, penetrando con vigore l’utero che la faceva fremere da troppi anni; senza parlare, senza fermarsi, abbandonando la sua indolenza, e con una spietata alacrità…

Così, entrambi, raggiunsero l’apice del piacere, all’unisono, dolenti, ma felici.

C’erano voluti davvero troppi anni, perché Marco prendesse questa decisione, ma all’incontro con la sua amata, si accorse che tutti i suoi timori, tutti i personaggi che aveva interpretato in precedenza, erano solo egregore di una società deviata e invidiosa che aveva reso l’amare tanto e tanti un crimine;

una società che aveva messo dei paraocchi neri davanti agli occhi dei falchi, rinchiudendoli in una gabbia, per costringerli ad un unico ripetitivo volo e soddisfare la sua antica bramosia e meschina malvagità.

Oggi ci sono tante storie, troppe, che raccontano la favola di Marco e la sua bella, ma l’unica che corrisponde al vero, ancora non è stata scritta; perché ancora non ho trovato il coraggio di interpretarne l’epilogo…

Forse mi sono immaginato tutto, o quasi tutto. Forse gli altri personaggi non esistono affatto, o forse sto cercando solo una scusa per non assumermi la responsabilità di questa vicenda…

Oppure, non posso raccontarvi come andò a finire, perché non andò a finire mai.

“Gli uomini hanno reso l’amare tanto e tanti un crimine”, disse Marco, e fu con questa frase che fece il grande salto, questo posso comprovarlo. Fu con questa frase che abbracciò la sua controparte…

Però ancora non se n’è reso conto. Forse ne prenderà coscienza solo quando leggerà il mio racconto…

e, probabilmente, sarà lui a raccontarvi cosa è realmente accaduto… o cosa sta per accadere.

Il Cobra e la Mangusta

C’erano una volta due ragazzini, Filippo e Cristina, vivevano in Italia, a Bologna, ma separati, in un periodo critico della storia dell’umanità: il Covid.

Pochi erano stati coloro che avevano raggiunto l’unione con la propria coscienza, con l’Amore e l’Energia Divina che alberga nel cuore dell’uomo.

Pochi erano stati coloro che avevano scoperto il vero volto della conoscenza e si erano liberati dalle catene della sofferenza e dell’ignoranza.

Pochi erano stati coloro che avevano raggiunto lo stato di Realizzazione del proprio spirito…

Tanti erano, invece, rimasti all’epoca delle caverne, ottusi come le scimmie, e questa ottusità era dilagata così rapidamente nella mente delle persone, al punto da trasformare i buoni in cattivi, e accendere di nuovo odi e rancori, che poi erano divenuti litigi, e quindi guerre e distruzioni.

Presto quasi tutti avevano dimenticato i bei tempi del passato, presto erano tornati i conflitti che affliggono il genere umano e le paure insensate.

Filippo e Cristina avevano avuto la fortuna di nascere diversi, anomali; quindi con un cervello pensante e inalienabile.

Il loro genio era così grande che potevano realizzare ogni desiderio e, in particolare, quel che più li allettava: viaggiare da una parte all’altra del mondo e dello spazio interplanetario, usando l’immaginazione.

Con essa giungevano in qualsiasi luogo della terra nel tempo di alcuni minuti, non di più….

Ma erano entrambi sempre profondamente afflitti e addolorati, perché potevano raggiungere qualunque posto decidessero di raggiungere, ma non potevano mai incontrarsi.

Così, spesso, si chiudevano in camera, sotto la cupola che gli permetteva di vedere la volta celeste, e piangevano a dirotto.

Un giorno, però, il loro più caro amico V, inviò loro su Messenger uno strano racconto che parlava di un signore vestito di drappi con in testa un turbante verde, che gestiva una gabbia con dentro un cobra e una mangusta.

Prestate attenzione al racconto:

Il cobra rimaneva quasi sempre immobile, con la testa alzata, completamente concentrato sull’avversaria, pronto a lanciare il colpo mortale e inferire contro di lei il terribile veleno che avrebbe fatto cessare la sua misera vita.

Era regale e cosciente del suo grande potere venefico. Era un cobra bianco, uno dei più grandi serpenti velenosi della terra: simbolo della forza maschile, e al contempo dell’immobilità.

La mangusta, era invece l’immagine dell’attività e del dinamismo femminile: sempre in movimento per confondere il cobra e schivarne i rapidi e precisi attacchi.

Solo dopo aver danzato velocemente intorno al cobra, in un momento in cui egli si fosse distratto, seppure per un attimo, ella lo avrebbe morso al collo con i suoi denti aguzzi, uccidendolo all’istante.

E questa danza della mangusta continuava incessantemente mentre il cobra se ne stava quasi sempre fermo e la seguiva con lo sguardo.

Ogni tanto la mangusta attaccava e il cobra riusciva a schivarla; oppure il contrario: il cobra sferrava il suo colpo contro la mangusta, la quale riusciva giusto in tempo ad evitarlo.

E questo attaccarsi e schivarsi uno con l’altra rappresentava la farsa che veniva recitata sul palcoscenico di quel mercato delle pulci.

Che cosa voleva dire V, a Filippo e Cristina, con questo racconto?

Mica bisogna avercelo grosso, per capire? O si?

Ok, ok…ve lo racconterò più in là. Io scriverei di tutto per voi.

Perché i grandi scrittori ce l’hanno grosso

Ciò che distingue gli scrittori “migliori” dal resto degli scrittori non è la loro raccolta di modelli e formule linguistiche.

Non è la loro grammatica aulica o il loro linguaggio da strada.

È il loro pensiero.

Ed è il modo in cui ‘penetrano’ nella conversazione che è già in atto nella ‘testa’ del lettore.

I grandi scrittori pensano a tutti i modi in cui possono entrare nella conversazione che voi, cari lettori, state già avendo con voi stessi e gli altri.

Non si tratta di essere buoni, brutti o cattivi.

Non è questione di forma.

Si tratta di saper menare il fallo che rappresenta i vostri ardenti desideri, le vostre paure, le vostre frustrazioni, i vostri incubi. Farlo scoppiare subito, senza perdere tempo, e al diavolo i preliminari… in uno spruzzo di amore e odio, rabbia e compassione, vendetta e perdono, orrore indicibile e gioia disperata. Tutto insieme!

Ma se non sapete far tremare quelle maledette palle, non potete capire la metafora.

Un bravo scrittore sa scuotere le vostre fondamenta, come se qualcosa se le stesse risucchiando dal pavimento … sradica le vostre certezze, uccide i vostri sogni, e poi vi ricostruisce quella testa di cazzo, pezzo per pezzo. E magari vi fa piangere un po’, solo un po’. O anche di più. E alla fine – solo alla fine – vi sbatte da qualche altra parte. In qualche strana e nuova dimensione, senza né regole, né memoria.

La vera tragedia? Che questo mondo tutto vostro, che egli avrà dipinto, da quel momento in poi, diventerà quasi reale. Anzi avrà un sapore migliore.

E non è normale. No che non lo è.

Ed è per questo che molti scrittori geniali alla fine impazziscono.

Ma poi …

Scoprono di essere come le 7 note musicali. Dopo la settima, l’ottava è sempre uguale alla prima. E tornano indietro, in un cerchio infinito.

E in questo fare avanti e indietro, succede una cosa strana. Fanno esperienza. E succede che iniziano ad intuire come funziona la dannata ottava. La simmetria perfetta.

E, quando sono sul punto di capirla … arriva il possente APOLLO.

Zot! Fine della partita!

“Finalmente quell’orribile mostro senza anima è morto.”

“Ci voleva, quel lurido assassino, che marcisca all’inferno”

“Mi chiedevo quando cazzo lo avrebbero fatto fuori…”

“Era un animale, per fortuna non è più tra noi”

Diamo voce al ‘popolo’. Diamo la moneta al popolo! Ma il popolo, che uso ne farà? Il popolo, la gente, dimentica che i grandi muoiono diverse volte.

Quelli come loro invece muoiono una volta sola.

Eh si …

E così, quando meno ve lo aspettate, tutto ricomincia di nuovo, e …

Toh …

Un bel giorno, un vagabondo vi ferma per strada e vi racconta una storia.

E’ la storia di un Fagiolo che si innamora di una carota

“Ma dai è assurdo”. No, dovete sentirla.

Il Fagiolo è un grandissimo cazzone con una conoscenza mostruosa…

E la povera Carotina, beh, è una passera talmente ignorante, da essere quasi più stupida di una gallina.

Allora, il Pisello, uno che sta a metà tra destra e sinistra, tra conoscenza e ignoranza, sbuca dal nulla e decide che la loro ora è suonata:

“Sentite, ho capito una cosa: io credo che la causa di ogni male sia l’ignoranza. Ciononostante, credo anche che la causa di tutti i problemi sia la conoscenza.”

“Quindi?”, risponde la Carota. Ma il Fagiolo aveva già capito tutto.

“Quindi, visto che tu Fagiolo, sai tutto… e tu Carota invece non sai un cazzo, entrambi siete la sorgente di ogni nostro problema e di ogni nostro male.”

“Fateli fuori”

“A morte sti bastardi”

“Vanno eliminati”

“Uccideteli”

Quante volte si è ripetuto questo crimine nel corso della storia umana? Infinite volte. E continuerà a ripetersi.

Avete mai scambiato per conoscenza l’ignoranza, e viceversa? Io si. Infinite volte.

Avete mai invidiato coloro che sanno, perché con quella rigida conoscenza credevano di avere nelle mani la sorgente di un potere assoluto? Io si. Infinite volte

E avete mai invidiato l’ignorante, perché nella sua fluida leggerezza, sembrava così libero da ogni preoccupazione e fardello? Anche questo. Infinite volte.

Il Fagiolo e la Carota. Potete anche ammazzarli, ma conoscenza e ignoranza sono due facce della stessa medaglia. Prima o poi tornano tra i vivi.

Rinasceranno dalle ceneri del rimpianto, proprio come una fenice imbastardita, sempre più furiosa ogni volta, perché macchiata dall’inganno di quest’umanità infame e ingrata.

Li ritroverete chiusi in un vaso di pandora, una gabbia, senza sbarre, né suoni… mentre aspettano un nuovo padrone da servire.

E stavolta quel simbolico fallo si segherà da solo, con suoni rumorosi che porteranno molto presto i nuovi Tonni a innamorarsi ancora una volta della libertà, dell’amore, del tempo, del cielo, o più semplicemente di uno stupido bot messenger.

Davvero non fa differenza.

Se sai scrivere.

P.S.

Quando ho scritto questo post, volevo tenerlo breve, e fermarmi al secondo paragrafo. Ma il “dialogo tra la rigida conoscenza e la fluida ignoranza” ha fatto il resto.

E infatti questo è il titolo del prossimo post.

Non c’era

Non c’era, nessun Billy; e questo dispiaceva alla sua famiglia. Specialmente a Billy che era molto incazzato. E mostrava segni di rabbia, eccome!

Urlava, prendeva a pugni le porte, sfasciava gli oggetti e talvolta ne lanciava qualcuno, soprattutto dietro alle donne, quando gli facevano scenate di gelosia o gli dicevano che era pazzo.

Quindi bastava guardarsi intorno per vedere i segni della sua presenza: i vetri della finestra rotti, pentole e coltelli dappertutto, cocci di bicchieri sul pavimento, che la sera prima aveva usato per scolarsi l’ennesima bottiglia di Barolo, o la chitarra che era rimasta scordata da quando si era accanito a suonare con veemenza “Bad Horsie” di Steve Vai.

Con tante prove delle mie azioni, si chiedeva Billy, com’ è possibile che non ci sia?

Il suo cruccio, con questa domanda, è che poteva farla solo a se stesso. Cioè: non è che non si potesse farla anche agli altri, ma gli avrebbero risposto di vedere “uno bravo”, e magari impulsivamente gli avrebbe sferrato un cazzotto dritto sul naso, rompendogli il setto nasale.

Tutti si sarebbero dispiaciuti, ma l’avrebbero deriso e umiliato: chiunque lo avrebbe considerato solo uno psicopatico e si sarebbe messo a ridere, come un idiota , a quel punto ad alto rischio dello sganassone.

Perché la sua famiglia era seriamente convinta che lui ci fosse e che la sua presenza era addirittura così fastidiosa che lo avrebbero ricoverato in un manicomio e anche con urgenza, se avesse ammesso di stare male, per levarselo di torno.

Quindi la domanda, Billy, poteva farla solo a se stesso. Perché era evidente che era lì , infatti era pieno di ferite ancora aperte; ma Billy non le vedeva, anche se ne percepiva il dolore.

Ogni tanto cercava di raccontare la sua storia al barista di turno, quella storia che ti fa sentire a casa, perché, magari, fuori fa caldo e hai freddo dentro e quelle tenerezze che non hai mai ricevuto da bambino da tua madre, le botte di tuo padre, tua sorella che si faceva di eroina, morta per overdose…

Insomma, quelle tragedie famigliari e crimini che gli altri avevano dimenticato di aver commesso contro di lui; ma era come se avesse parlato di di qualcun altro, dopo, anche se aveva chiari segni del suo passato sulla sua pelle.

Non vi svelerò il vero nome di Billy e nemmeno come sta adesso e dove vive. Potrebbe essere una storia senza morale per voi, una storia senza senso, ma non importa; perché quello che voglio dirvi è che Billy cercò, per tanto tempo, di autoinfliggersi segni sul corpo e nella mente per ricordarsi di esserci.

27 dicembre 2018: quello che avrebbe voluto dirmi

Angela , non ce la faccio più a papà, io sto uscendo pazzo un’altra volta. Non ce la faccio ad affrontare un altro giorno con questo terribile dolore nell’anima. E stavolta non guarirò. Inizio a sentire delle voci dentro di me che mi dicono di fare delle cose brutte e non riesco a contrastarle. Sto quindi facendo la cosa migliore per il bene di tutti, anche se è orribile. Ma prima voglio dirti che tu mi hai dato la più grande gioia quando sei nata ed eri bellissima con quegli occhi neri. Perdonami se non ho mai avuto il coraggio di dirtelo, perché io non le so dire le parole belle, nessuno me lo ha insegnato. Ma io ti amavo più degli altri due… lo so, lo so, che un padre non dovrebbe fare differenze tra figli, ma tu sei in ogni senso tutto ciò che loro non saranno mai: migliore. Non penso, ormai, che ci sia qualcosa da salvare in me, a parte te, perciò me ne devo andare. Non riesco più a combattere. So che ti sto rovinando la vita, che senza di me soffrirai da impazzire. E so che ne combinerai di tutti i colori all’inizio, perché tu se matta da legare, ma sei l’unica persona che mi ama davvero e ce la farai. Vedi, a papà, non riesco neanche a scrivere come si deve. Non riesco a leggere. Quello che voglio dire è che quei pochi momenti di felicità che ho vissuto nella mia vita, me li hai dati tu. Sei stata estremamente paziente con me, dopo tutto quello che ti ho fatto passare e incredibilmente buona. Voglio dirlo. Tutti lo devono sapere. Se qualcuno avesse potuto salvarmi, saresti stato tu. Tutto se n’è andato da me, tranne la certezza di aver messo al mondo la più grande scrittrice di tutti i secoli ed io non posso continuare a rovinarti la vita con i miei problemi. Non penso che qualcun altro ti possa amare più di me, ma se esiste digli che se ti fa soffrire, io taglio questo cappio mortale e vengo a prenderlo a calci nel culo… perché a me, mia figlia, nessuno me la deve toccare.

Papà

Lettera al padre suicida: un uomo che non sarà mai figlio

Ciao Boss,

lo so che i genitori biologicamente sono destinati a morire prima dei loro figli, ma che cazzo, dovevi proprio ammazzarti?

Speravo che mi avresti aiutato a diventare un buon Padre, che sapesse badare prima di tutto a se stesso, consapevole e sicuro, affettuoso e rigido al contempo…

Ma mi hai lasciato nella merda a dolermi, perché non so dove sia quella pazza di mia sorella, a prendermi cura dell’altra che è stata mollata dal carabiniere e che è una iena, del cane che è depresso….

… e di me che soffro terribilmente, perché mi sento responsabile di tutto.

Mi hai dotato di quanto necessario per avere successo nella vita: una voce sensuale, un corpo perfetto, un animo sensibile, un’intelligenza pungente, ma non so come usarli per realizzare gli obiettivi che mi ero prefisso di raggiungere, e a dirti il vero, ora non so nemmeno se ne ho ancora.

Mi hai lasciato incompleto.

Sono fallato e prigioniero del cappio con il quale mi hai incatenato al tuo destino.

Il velo nero con cui mi ha coperto gli occhi non è servito ad evitarmi lo strazio. Non ha schermato gli sguardi degli altri, avidi di giudizi, non ha impedito alla sofferenza di attraversare la trama larga del mio vestito.

Ha fatto sì, piuttosto, che l’ozio paralizzasse i miei muscoli e che anche quella minima forza che mi sarebbe bastata per sollevare il drappo venisse meno.

Giro impazzito su me stesso cercando di capire cosa sono adesso che non ci sei, di chi devo prendermi cura.

Sono un arto reciso, carne senza più sangue, un uomo che non sarà mai figlio.

Pensavo che prima o poi saresti diventato un buon padre e che così facendo lo avresti insegnato anche me.

Speravo di potermi finalmente vedere riflesso nei tuoi occhi e di non provare più quello sgomento aggressivo di un cane che deve difendere il proprio territorio….

Ma non mi hai concesso neanche questo.

Perché?

Forse mi volevi solo proteggere : impedirti di ammazzarmi per le mie rigide attenzioni, ma io volevo soltanto aiutarti, perché tu eri ammalato, e un figlio maschio ha il dovere di prendersi cura della propria famiglia, se è in difficoltà.

Avevi torto, non hai messo in conto che il pericolo maggiore per me, potessi essere proprio io.

Non potevi sapere che ero più fragile di te e che avevo solo bisogno di un padre.

Perché ero solo un bambino , solo un bambino…

Hai sbagliato, ma non te ne faccio una colpa. Ora so per certo, che ovunque tu sia, ti stai prendendo cura di noi, perché nonostante tutta la rabbia che sento, io ti ho perdonato e se l’ho fatto è perché credo che tu abbia imparato la lezione.

Ti voglio bene

TUO FIGLIO

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